INFIAMMAZIONE
Esistono due tipi di infiammazione differenti a seconda della loro durata all’interno dell’organismo. L’infiammazione acuta è il processo che si instaura in seguito ad un trauma, una ferita o un’infezione, a seguito del quale l’organismo tenta di curare se stesso, ma va ad interferire con il funzionamento delle nostre cellule. L’infiammazione cronica, per contro, è una condizione di irritazione persistente che può non dare sintomi per anni ma può essere più distruttiva per i tessuti vitali di quella acuta. Essa coinvolge l’equilibrio immunitario, e inoltre comporta fenomeni di glicazione, stress ossidativo, alterazione dell’equilibrio degli acidi grassi tipici dei fenomeni di invecchiamento. Il concetto tradizionale dell’infiammazione come una reazione ad un assalto microbico o danno tissutale è stato nel corso degli ultimi anni espanso e rivisto per riuscire a spiegare tutti quei tipi di infiammazione osservabili in condizioni di rottura dell’omeostasi. È adesso nota l’esistenza di una risposta infiammatoria e di basso grado, persistente in vari tessuti, denominata appunto “infiammazione silente”. La caratteristica essenziale è che non ci sono marcatori specifici di flogosi, la diagnosi clinica rimane incerta e contradditoria, lasciando il paziente di fronte a situazioni di forte disagio psicologico.
Interleuchina IL-6. Citochina pro-infiammatoria che svolge un ruolo primario nella fase acuta della risposta infiammatoria. Eccessive concentrazioni di IL-6 nel sangue sono predittive di cardiovasculopatie e diabete; questa molecola stimola la produzione epatica di un altro importante marcatore di infiammazione, la proteina C reattiva, che aumenta ulteriormente il rischio cardiovascolare del paziente. E’ stato dimostrato che esiste una correlazione tra concentrazione di IL-6 e quella della proteina C-reattiva, entrambe coinvolte nella patogenesi del diabete mellito di tipo 2 e dell’infarto.
high–sensitivity CRP. La PCR è una proteina prodotta dal fegato ed immessa nella circolazione ematica. Dato che la concentrazione plasmatica di PCR aumenta nel giro di poche ore dall’inizio di una infezione, la sua determinazione è particolarmente utile per monitorarne il decorso. Il dosaggio della PCR è impiegato come marcatore di infiammazione sistemica. L’infiammazione gioca un ruolo chiave nella pato-fisiologia della malattia aterosclerotica e recentemente alcuni studi hanno dimostrato che la PCR potrebbe essere anche un indicatore di rischio cardio-vascolare in soggetti apparentemente sani. In tali soggetti però il livello di PCR è generalmente così basso che per il dosaggio è necessario un test particolarmente sensibile; questo test è chiamato PCR ad alta sensibilità o hs-CRP (High sensitivity C-reactive protein).
Lipidomica su plasma o membrana eritrocitaria. La lipidomica permette di valutare su diverse matrici biologiche le unità fondamentali delle classi di acidi grassi che compongono le membrane cellulari: SFA (Saturated Fatty Acids), MUFA (Mono Unsaturated Fatty Acids), PUFA (Poly Unsaturated Fatty Acids). Nelle recenti ricerche si è sempre più evidenziato l’effetto cruciale degli acidi grassi legato al corretto funzionamento di canali ionici, di trasporto attivo e passivo, di proteine e recettori. Quindi sta diventando sempre più chiaro che l’organizzazione della membrana non produce solo un effetto strutturale, ma anzi sia il punto chiave della regolazione e taratura dell’intero funzionamento cellulare. Da ciò la definizione della membrana come pacemaker metabolico per indicare il ruolo di questo compartimento che non può più essere considerato spettatore passivo, ma anzi diviene protagonista attivo della vita e del destino cellulare [1].
La lipidomica permette di valutare diverse caratteristiche essenziali della membrana dando informazioni precise sullo stato nutrizionale del soggetto. La letteratura scientifica negli ultimi anni ne ha evidenziato il ruolo cardine per ottenere indici utilizzati in numerosi trials clinici.
- L’Omega-3 Index su membrana eritrocitaria è da molti considerato uno dei principali biomarkers per le patologie cardiovascolari [2-3]
- La determinazione del rapporto Omega-6/Omega-3 e di Omega-6 pro-infiammatori quali l’Acido Arachidonico su membrana eritrocitaria è ad oggi il test più significativo per individuare la persistenza di infiammazioni silenti. Mentre il rapporto tra grassi saturi e insaturi va progressivamente migliorando all’interno della popolazione, il rapporto tra Omega-6 (acido linoleico — LA) e Omega-3 (acido alfa-linolenico — LNA), la cui proporzione ideale si situa tra 4:1 e 2:1, è attualmente così squilibrato che l’ultimo rapporto della FDA statunitense parla di un rapporto medio nella comune alimentazione di ben 25:1 (in Europa siamo attorno al 15:1) [1].
- Individuare il pattern lipidico ottimale per longevità ed Invecchiamento. Una ricerca italiana del 2008 che ha esaminato 41 discendenti (figli) di longevi ha riscontrato che la membrana dell’eritrocita di questi individui presenta una quantità significativamente più elevata di acido palmitoleico. A conferma che acidi grassi monoinsaturi durante l’invecchiamento mantengono la fluidità dell’assetto lipidico senza creare predisposizioni aberranti, che generano invecchiamento e stress ossidativo [1,4].
- Individuare il corretto contenuto di DHA. Il DHA è un acido grasso Omega-3 ed il principale componente del cervello, tanto che nelle membrane nervose e sinaptosomali plasmatiche rappresenta circa il 35% della porzione acidica totale. Proprio per questo, esso è essenziale per il corretto sviluppo neurale del bambino e più in generale per la plasticità sinaptica.
- Molti studi clinici indicano che gli acidi grassi Omega-3 hanno proprietà antiinfiammatorie e quindi potrebbero essere utili nella gestione delle malattie infiammatorie e autoimmuni. Nel 2002 una importante pubblicazione ha raccolto tutti i trials clinici correlati ad Omega-3 Intake e patologie infiammatorie e autoimmuni [5].
Ferritina. La ferritina è una proteina che svolge un ruolo fondamentale nella gestione del ferro e nel mantenimento dell’omeostasi del metallo nelle cellule del nostro organismo. In particolare svolge la sua azione trasformando il Fe(II), altamente reattivo, nel meno tossico Fe(III) e sequestrando quest’ultimo al suo interno. Recenti trials clinici hanno evidenziato il ruolo della ferritina quale biomarker di infiammazioni silenti [6]. La necessità per tutte le cellule, anche quelle che non sono specificamente deputate alla conservazione del ferro, di avere ferritina può essere dovuta al suo duplice ruolo: regolare la tossicità del ferro e al contempo facilitare forme di deposito da cui il metallo possa essere facilmente reso biodisponibile[16].